Condanna per indebita compensazione di crediti inesistenti

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6/2024 (Sez. III pen.), depositata il 2 gennaio (ud. 14/11/2023), ha confermato la condanna di un imputato per il reato di indebita compensazione di crediti inesistenti relativi agli anni fiscali 2016 e 2017.

“La decisione si basa – sottolinea Maria Vittoria Tonelli, consigliere d’amministrazione della Cassa di previdenza dei ragionieri e degli esperti contabili – sulla creazione artificiosa di crediti da parte di società fittizie, definite ‘cartiere’, e sulla loro successiva compensazione illecita da parte del ricorrente, legale rappresentante di una società cooperativa.

La Corte d’Appello di Milano aveva condannato l’imputato a 1 anno e 6 mesi di reclusione, sottolineando che l’inesistenza dei crediti era stata accertata non tramite controlli automatizzati, ma attraverso dati di fatto concreti emersi dagli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate. Le società cedenti erano gestite dallo stesso individuo, avevano la stessa sede fittizia e non erano operative, creando crediti fittizi per monetizzazione.

La difesa aveva contestato l’assenza di un’attenta analisi degli atti di indagine da parte dei giudici d’appello, ma la Corte di Cassazione ha respinto questa critica. La sentenza sottolinea che la motivazione della Corte d’Appello è valida, poiché ha chiarito le ragioni per cui i crediti erano da considerarsi inesistenti, essendo stati creati artificialmente da società fittizie e successivamente compensati indebitamente.

La Cassazione ha ribadito il concetto – prosegue Tonelli – che per ‘credito non spettante’ si intende un credito certo nell’esistenza e nell’ammontare, ma non utilizzabile per qualsiasi ragione normativa. Riguardo ai “crediti inesistenti”, la definizione dell’art. 13 del D.lgs. n. 471/1997 è applicabile solo alla materia degli illeciti amministrativi, mentre il D.lgs. n. 74/2000, art. 10-quater, fornisce una definizione autonoma”.

La Corte ha ritenuto valida la condanna e respinto il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali. La sentenza della Sezione III penale non ha menzionato il recente intervento delle Sezioni Unite civili sulla definizione di “credito inesistente”.