Dossier Statistico Immigrazione: la migrazione colpita dalle “3 C”

Conflitti, clima e Covid. Povertà diffusa e mancato accesso ai servizi
Roma, 27 ott. (askanews) – Sono molteplici gli aspetti della migrazione in Italia studiati dal Dossier Statistico Immigrazione presentato oggi. Tre in particolare sono da sottolineare: l’accoglienza dei profughi ucraini, con oltre 150.000 persone in fuga dalla guerra che hanno goduto di una normativa finora mai attuata per i rifugiati in Italia, ma sono state accolte soprattutto dai connazionali residenti nel Paese, mentre dopo sei mesi meno di 14.000 hanno un posto nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Gli immigrati in Italia, produttori di ricchezza, eppure sempre più poveri, lavorano in condizioni peggiori, sono più sovraistruiti e sottoccupati, ma contribuiscono in misura rilevante all’economia del Paese, con un saldo positivo di 1,3 miliardi di euro per le casse dello Stato. E restano largamente esclusi da molte prestazioni sociali, pur avendo un tasso di povertà 4 volte superiore a quello degli italiani. Infine l’immigrazione in Italia è sempre più “climatica”: nel 2021 i primi Paesi di origine delle persone arrivate nella nostra penisola erano tra quelli più colpiti da siccità e alluvioni. A oltre due anni dall’avvento della pandemia globale e nel mezzo di una sanguinosa guerra dalle implicazioni mondiali scoppiata alle porte dell’Europa, la 32esima edizione del Dossier Statistico Immigrazione, realizzata dal Centro Studi e Ricerche IDOS in collaborazione con il Centro Studi Confronti e l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, analizza il quadro dell’immigrazione in Italia alla fine del 2021. Secondo i dati più recenti, nel mondo i migranti- le persone che vivono fuori dal Paese di residenza – ammontano a 281 milioni (1 ogni 30 dei 7,9 miliardi di abitanti della Terra), di cui 169 milioni sono lavoratori. A loro volta i migranti forzati, compresi gli sfollati interni, hanno raggiunto, alla fine del 2021, gli 89,3 milioni (di cui 53,2 milioni sfollati interni, 21,3 milioni rifugiati, 5,8 milioni rifugiati palestinesi del 1948 e loro discendenti, 4,6 milioni richiedenti asilo e 4,4 milioni venezuelani fuggiti all’estero); ma già a maggio 2022 hanno superato i 100 milioni, soprattutto a causa dell’alto numero di persone in fuga dalla guerra scoppiata, il 24 febbraio, in Ucraina (nel complesso più di 14 milioni a fine settembre 2022). L’accoglienza, eccezionalmente calorosa, offerta ai profughi ucraini non si è estesa però ai migranti forzati di altre nazionalità, spesso provenienti da conflitti non meno sanguinosi, che sono invece rimasti oggetto di preclusioni e pregiudizi, veri e propri “ospiti indesiderati” dei Paesi ricchi, anche se in realtà l’83% di essi vive in Stati a reddito medio-basso. Proprio i Paesi a sviluppo avanzato – il Nord del mondo – si configurano come “la più grande comunità recintata del pianeta”, protetta da una fitta schiera di barriere terrestri, sbarramenti marittimi e muri artificiali, eretti a protezione dei quasi 1,4 miliardi di persone che lì vivono, il 17,3% della popolazione planetaria. Il dossier analizza le ‘3 C’: Nel 2021 i 32 conflitti nel mondo, dei quali 17 ad alta intensità, hanno congiunto i propri effetti devastanti a quelli dell’emergenza climatica e della pandemia da Covid-19, rendendo inabitabili aree sempre più vaste del pianeta. A questi fattori di espulsione si è aggiunta, di recente, la guerra tra Russia e Ucraina, che a fine settembre 2022 aveva già spinto 7,4 milioni di profughi ucraini nei Paesi Ue. Del resto, i conflitti moltiplicano e aggravano – con un’intensità impressionante durante la guerra in Ucraina – le crisi alimentari. Oggi nel mondo soffrono la fame 870 milioni di persone, aumentate di 150 milioni dal 2020. A loro volta le crisi ambientali, provocate in gran parte dal cambiamento climatico, nel solo 2021 hanno generato 24 milioni di sfollati interni. Secondo la Banca mondiale, entro il 2050 i migranti ambientali, in fuga dai disastri ambientali causati dal cambiamento climatico, potrebbero arrivare a 220 milioni di persone. Le “3 C” di conflitti, clima e Covid-19 sono pertanto tra i fattori chiave per comprendere le migrazioni contemporanee. Il Dossiera analizza poi i flussi nell’Ue: nonostante una consistente contrazione della mobilità umana rispetto al periodo pre-pandemia, nel corso del 2020 i flussi migratori hanno portato la popolazione stranieraresidente nell’Ue a 37,4 milioni, di cui 13,7 milioni comunitari, per un’incidenza dell’8,4% sulla popolazione totale. Il 70% degli stranieri residenti in Ue a fine 2020 vive nei 4 principali Paesi comunitari di immigrazione: Germania (10.585.053), Spagna (5.368.271), Francia (5.215.225) e Italia (5.171.894). Considerando i nati all’estero, che includono i sempre più numerosi naturalizzati, il numero lievita a 55,4 milioni. La politica migratoria europea, che da molti anni ha drasticamente ristretto i canali regolari di ingresso per i migranti economici non Ue e adotta politiche di respingimento – anche esternalizzate – verso i profughi, ha finito per indurre entrambi all’attraversamento irregolare delle frontiere, via terra o via mare. L’intero fondale del Mediterraneo, “il luogo di migrazione più fatale al mondo”, è disseminato di morti: solo negli ultimi otto anni, dal 2014 al 2022, se ne sono accertati quasi 25.000, tra i quali non sono ricompresi i “naufraghi invisibili”. Non sorprende, quindi, che nel 2021 l’immigrazione irregolare verso l’Ue sia risalita ai livelli pre-pandemici, con quasi 200.000 ingressi (+57% rispetto al 2020 e +38% rispetto al 2019). La rotta principale è tornata ad essere quella del Mediterraneo centrale (67.724 attraversamenti), la più battuta insieme a quella dei Balcani occidentali (61.618). La chiusura delle vie legali di ingresso per i migranti non comunitari, messa in atto dai Paesi Ue da molto prima della pandemia, insieme alla sistematica attuazione di espulsioni e respingimenti sia ai confini (interni ed esterni all’Ue) sia lungo le rotte (terrestri e marittime), che nel 2022 ha addirittura visto progettare il trasferimento forzato di richiedenti asilo, già giunti in Europa, verso Paesi africani (da Regno Unito e Danimarca al Rwanda), produce gravi effetti negativi sulle economie dei Paesi Ue. Una riflessione particolare meritano i profughi ucraini, per i quali il 4 marzo 2022 l’Ue ha attivato per la prima volta la Direttiva 2001/55/Ce, che “in caso di afflusso massiccio di sfollati” garantisce loro una protezione temporanea, in passato tuttavia rifiutata a profughi siriani, afghani, ecc. Malgrado le favorevoli misure di tutela da essa previste (abolizione del visto di ingresso, titolo di soggiorno temporaneo, possibilità di esercitare un lavoro, ottenere un’abitazione e accedere ad altri servizi), non sfuggono alcuni aspetti discriminatoririspetto al sistema europeo di governancedelle migrazioni. Da una parte, è stata concessa ai singoli Stati Ue la facoltà di applicare la Direttiva, oltre che ai cittadini ucraini, anche ai soli apolidi e cittadini di Paesi terzi, insieme ai rispettivi familiari, che in Ucraina risiedevano o beneficiavano di protezione – internazionale o nazionale – prima del 24 febbraio 2022, lasciando in ogni caso estromessa, e quindi di fatto bloccata in Ucraina, una parte molto consistente dei circa 5 milioni di stranieri presenti nel Paese: lavoratori, studenti, richiedenti asilo e altre categorie di migranti a breve termine. Dall’altra parte, la Direttiva consente ai beneficiari di protezione temporaneadi circolare all’interno dell’Ue e di godere dell’assistenza dei Paesi membri in cui sceglieranno di vivere, il che, tra l’altro, ha offerto agli Stati membri confinanti (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania) la possibilità di evitare gli oneri che il Regolamento di Dublino imporrebbe loro, in quanto Paesi di primo ingresso. In generale, nonostante l’esclusività con cui una forma di protezione, seppure eccezionale e temporanea, è stata riservata a un solo gruppo nazionale, l’esperienza maturata in questi mesi mostra le ampie capacità di accoglienza dei Paesi Ue e i praticabili margini di semplificazione delle procedure (in primiscon il superamento del Regolamento di Dublino) anche per gli altri profughi, i quali dovrebbero ugualmente beneficiare di un’accoglienza dignitosa e di percorsi di integrazione sociale adeguati, tanto più che nel loro caso – come più volte evidenziato anche da vari policymakereuropei – non si tratterebbe di afflussi di massa, ma di una gestione ordinaria. Nel 2021 è tornata a crescere la presenza regolare in Italia: a seguito della ripresa dei flussi migratori e degli effetti delle nuove misure di governance (come quelle del “Decreto immigrazione” del dicembre 2020), tale numero è risalito a 3.561.540 (+187.664, +5,6%), attestando una sorta di “riassestamento fisiologico” dopo i consistenti cali del biennio precedente. Sono 241.595, più del doppio rispetto al 2020, i nuovi permessi di soggiorno rilasciati nell’anno e, per la prima volta dal 2015, quelli per lavoro superano il tetto del 10% del totale (50.927: 21,1%), mentre si attestano al 47,0% i motivi di famiglia (113.455) e al 13,5% i motivi di protezione (32.667, di cui 27.401 per richiesta d’asilo). Ma se l’aumento dei nuovi permessi per famiglia (+82,1%) e richiesta di asilo (+112,3%) è direttamente connesso alla riduzione dei blocchi alla mobilità, quello dei nuovi permessi per ottenuta protezione (poche migliaia, ma cresciuti di quasi 8 volte) e per lavoro (quasi quintuplicati) rimanda innanzitutto agli interventi normativi attuati: da un lato, a dicembre 2020, le nuove disposizioni sulle cosiddetta “protezione speciale” che, dopo l’abolizione della protezione umanitaria del 2018, hanno contribuito a elevare il tasso di riconoscimento delle richieste d’asilo (42% in prima istanza, contro il 24% del 2020); e, dall’altro, la regolarizzazione, indetta nel 2020 col “Decreto rilancio”, in favore dei lavoratori del comparto domestico e agricolo. Oltre i tre quarti dei nuovi permessi per lavoro rilasciati nel 2021 (38.715, il 76,0%) si riferiscono, infatti, non a nuovi ingressi, ma all’emersione di lavoratori già presenti sul territorio. Il dossier sottolinea poi che sono quasi 5,2 milioni i residenti stranieri, con un’incidenza sul totale della popolazione che sfiora il 9,0%: 5.193.669 e 8,8% secondo il dato provvisorio del 2021 (in linea con le risultanze del Censimento del 2020 che ha fotografato una presenza di 5.171.894 persone). I dati consolidati del 2020 attestano che per quasi la metà (47,6%) i residenti stranieri sono europei e, in particolare, per oltre un quarto (27,2%) sono cittadini comunitari. Con quote tra loro simili, di oltre un quinto, seguono asiatici (22,6%) e africani (22,2%), soprattutto originari dei Paesi mediterranei (13,3%), mentre gli americani sono il 7,5%. Tra le 198 collettività presenti, le prime cinque coprono da sole il 48,4% di tutti i residenti stranieri: i più numerosi si confermano i romeni (1,1 milioni: 20,8%), seguiti da albanesi (433mila: 8,4%), marocchini (429mila: 8,3%), cinesi (330mila: 6,4%) e ucraini (236mila: 4,6%). Come osservato, l’attivazione della protezione temporanea in Ue ha lasciato liberi i profughi ucraini di spostarsi tra i vari Stati membri. In molti hanno cercato riparo anche in Italia, attratti dalla rete di sostegno rappresentata dalla collettività ucraina nel Paese: 236.000 residenti, soprattutto donne (77,6%), largamente occupate presso le famiglie italiane. A loro favore si è per la prima volta implementato un piano di accoglienzache, oltre a prevedere un immediato accesso al lavoro e ad ambiti fondamentali di welfare(alloggio, scuola, sanità ecc.), ha integrato la rete già esistente (Sai/Cas) con forme di “accoglienza diffusa” e sostegni per sistemazioni autonome. Sebbene il governo avesse previsto di accogliere circa 100.000 profughi ucraini, già a inizio settembre ne erano arrivati quasi 154.000. L’81%, al netto delle 8.000 collocazioni in strutture alberghiere, ha ricevuto una qualche assistenza pubblica, ma si è trattato in 9 casi su 10 di contributi economici (spesso erogati tardivamente) che hanno coperto solo in parte i costi dell’ospitalitàattivata da privati (soprattutto connazionali) e Terzo settore, i quali, con prontezza e autonomia, hanno colmato i ritardi della risposta istituzionale. È stata, invece, alquanto limitata l’accoglienza nella rete Sai/Cas (9% del totale) e piuttosto problematica l’attuazione dell’accoglienza diffusa, frenata da lentezze e rigidità burocratiche: a metà settembre le convenzioni attivate erano solo 10 (su 29 proposte giudicate idonee), per un totale di 5.943 posti disponibili e appena 287 persone accolte. Con un opportuno snellimento delle procedure di attivazione, necessario per non disperdere le positive innovazioni introdotte, il modello sperimentato potrebbe entrare a sistema per tutte le persone in cerca di sicurezza e protezione, quale che sia la loro provenienza. Nonostante una presenza di lungo corso e sempre più stabilmente radicata, gli immigrati non riescono ancora ad accedere in condizioni di parità, rispetto agli italiani, a beni e servizi fondamentali di welfare, o partecipare pienamente e attivamente alla vita collettiva, o riconoscere loro un’eguale dignità (anche giuridica) negli ambiti della quotidianità. Al contrario, sul piano dell’inserimento sociale essi vengono sempre più strutturalmente sottoposti a dinamiche e meccanismi, anche burocratici, di inferiorizzazione. Nel 2021, su un totale nazionale di 5,6 milioni di persone in povertà assoluta(cioè non in grado di assicurarsi un paniere di beni ritenuti essenziali per vivere dignitosamente), pari al 7,2% dell’intera popolazione in Italia, gli stranieri erano ben 3 su 10 (il 29,0%), ovvero 1,6 milioni, circa un terzo (32,4%) di tutti quelli residenti nel Paese. Eppure, tra i 2.460.000 beneficiari del reddito di cittadinanza, gli stranieri incidono per appena il 12% (quasi 3 volte meno che tra i poveri assoluti), essendo solo poco più di 306.000, di cui 221.000 non comunitari. Per i lavoratori stranieri gli effetti della crisi pandemica del 2020 restano alquanto pesanti, soprattutto perché si innestano su consolidate dinamiche di segregazione occupazionale che da decenni caratterizzano l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, mortificandone le potenzialità. Continuano infatti a lavorare in pochi e invariati comparti, secondo una rigida divisione sia di nazionalità (all’origine delle cosiddette “nicchie etniche”) sia di genere, con una scarsa mobilità occupazionale – e quindi sociale – anche dopo molti anni di servizio e per chi possiede titoli di formazione superiori. In ben 4 casi su 10 gli uomini lavorano nell’industria o nell’edilizia (42,4%) e le donne nei servizi domestici e di cura (38,2%), affiancati per lo più dai servizi di pulizia di uffici e negozi. A causa di questa concentrazione in poche professioni, l’incidenza degli stranieri tra i lavoratori (mediamente del 10%) sale al 15,3% nel ramo alberghiero-ristorativo, al 15,5% nelle costruzioni, al 18,0% nell’agricoltura e addirittura al 64,2% (ben i due terzi) nei servizi alle famiglie. In generale più di 6 lavoratori stranieri su 10 sono impiegati in professioninon qualificate o operaie (63,8%, il doppio rispetto al 31,7% degli italiani), come manovali, braccianti, camerieri, facchini, trasportatori, addetti alle pulizie ecc., e solo 1 ogni 13 svolge un lavoro qualificato (7,8%, contro il 37,5% degli italiani). Persino tra i laureati ben il 32% ricopre una professione a bassa specializzazione o operaia: rispettivamente il 17,9% e il 13,9%, a fronte di appena lo 0,8% e l’1,4% tra gli italiani. Non sorprende, quindi, che ben un terzo dei lavoratori stranieri (32,8%) sia sovraistruito, ovvero abbia un titolo di formazione più alto rispetto alle mansioni che ricopre, contro un quarto degli italiani (25,0%), con le donne ancora una volta più penalizzate (sono sovraistruite il 42,5% delle straniere e il 25,7% delle italiane). Ma oltre a essere malamente impiegati, lo sono anche poco: i lavoratori stranieri in part-time involontario, ovvero svolto per mancanza di occasioni di impiego a tempo pieno, sono il 19,6%, a fronte del 10,4% degli italiani, con picchi più alti tra le donne (30,6% le straniere e 16,5% le italiane). Ne consegue che gli stranieri per oltre un terzo (34,3%, a fronte del 20,3% degli italiani) sono lavoratori “non standard”, cioè occupati a termine (dipendenti a tempo determinato e collaboratori) o in part-time involontario. Una condizione che, ancora una volta, tocca la sua massima diffusione tra la sola componente femminile (per le straniere è del 41,8% e tra le italiane è del 26,9%).