Fenomenologia di Ferrero, “persona seria” che odia il ‘Viperetta’

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ROMA – Se vuoi parlare di Massimo Ferrero lascia fare a lui. Il dimissionario presidente della Sampdoria ha lasciato dietro di sé una scia di ipse dixit pronta all’uso. Una letteratura di genere, multiforme, adattabile. Il personaggio ha viaggiato in parallelo con la persona, fino al carcere notizia di oggi. Nella contrapposizione tra il rispetto per se stesso e la caricatura autoprodotta c’è da qualche parte il vero Ferrero. Basta saper leggere.

“Avevo 14 anni e finii in un carcere minorile. Mia madre mi passava sigarette di contrabbando. Una storia adolescenziale, visto che stavo con una ragazzina figlia di un vigile che non approvava la nostra relazione, era un malato di mente. Gli diedi uno schiaffo quando mi fermò col motorino e mi portò in carcere”. Ora di anni ne ha 70 tondi e in galera c’è finito per presunti reati societari e bancarotta fraudolenta. Una storia calabrese. Il suo avvocato dice che per ora non è a San Vittore, non si sa dove sia. E subito torna alla mente il suo racconto sulle evasioni cinematografiche, con Giuliano Gemma a Cinecittà: “Lui distraeva l’autista e io mi infilavo nelle ceste della sartoria per vedere il cinema e il set con i miei occhi di bambino”.

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Basta andare a ritroso – Google aiuta – per annodare i fili tra le sue virgolette: fenomenologia del Viperetta, a parole sue. “Mio padre faceva l’autista dell’Atac, mi diceva che per essere rispettati non è necessario avere denaro, ma credibilità. I soldi valgono molto meno della parola data. Per mantenerla sono disposto a morire. La vita, al Testaccio, non era uno scherzo. Ho fatto il macellaio, il fornaio, il segretario, l’aiuto segretario, l’organizzatore, il produttore esecutivo. Mi industriavo. L’ho sempre fatto lasciando ad altri salotti, amici importanti, padrini e padroni”.

Romano per iperbole, Ferrero è un manuale vivente di se stesso. Uno a cui piace arare la retorica. La sobrietà la detesta, ed è un sentimento ricambiato: “Sono nato povero e morirò ricco perché ho passione e la passione non si compra al mercato. Siamo al mondo per toccare, godere, vivere, respirare”. Amen. Quanto uno così fosse aderente al sistema calcio italiano, pur narrandosene estraneo è scritto nella sua storia al comando della Samp. Leggenda narra che fu introdotto in Lega da Claudio Lotito, in questi termini: “Appena mi ha visto si è rivolto agli altri presidenti e ha fatto scivolare un ‘adesso sono cazzi vostri, voi siete abituati a prendere la vacca per le zinne e vi ritrovate l’unico che sappia veramente afferrare il toro per le palle’”.

“Ho comprato una cravatta e mi sono presentato in Lega scavalcando la curiosità dei cronisti. C’era una gran confusione. Un’aria di commedia. Sembrava di essere in una scena di Don Camillo e Peppone o, di Totò e Peppino. Si parlava e si straparlava di tutto tranne che delle questioni serie”. Pare di vederlo: non è esagerazione, è cronaca. “La serie A si risolve in una guerra tra poveri. Nessuno vuole pagare, chiedere giocatori in prestito è la norma e, nonostante la legge sugli stadi sia pronta da anni, ogni rivoluzione è tristemente ferma alle intenzioni. Il calciomercato sembra una stanza dell’Overlook Hotel, un frammento di Shining, un film dell’orrore. Questo è il calcio italiano. Un luogo in cui gli affari saltano perché i diritti di veto, i sindacati e l’arbitrio del singolo sono più importanti dell’interesse generale”.

E invece lui no. Faccette e barzellette a parte, Ferrero ha reclamato per sé un altro ruolo: “Il calcio è un’azienda e va gestito con regole precise. Sono stanco dei soprannomi, di sentirmi chiamare Viperetta, del cabaret forzato che mi vorrebbe confinato sull’isola della guasconeria obbligata. Lavoro 20 ore al giorno, trascorro a Genova 5 giorni alla settimana e sono una persona seria”. Sia messo agli atti: “Non sono una macchietta”.

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