Analisi su teschio di 5.000 anni: cold case archeologico risolto a Bologna

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BOLOGNA – A chi apparteneva quel cranio? Come ha fatto ad arrivare fin lì? E cosa significano quei tagli che si vedono in diversi punti del reperto? Non è la trama di una serie televisiva come “Csi” o “Bones”, ma la traccia dello studio condotto dai ricercatori dell’Università di Bologna per risolvere lo “strano caso” del teschio umano ritrovato nel 2015 nella grotta Marcel Loubens del Parco dei gessi di San Lazzaro, alle porte del capoluogo emiliano.

“Un vero e proprio ‘cold case archeologico’- così lo definisce l’Alma Mater- che gli studiosi dell’Università di Bologna alle prese con l’analisi di questo insolito reperto hanno ora risolto con un articolato studio multidisciplinare”. I risultati, pubblicati oggi sulla rivista ‘Plos one’, offrono infatti qualche risposta: “La protagonista- racconta l’Ateneo- è una giovane donna vissuta nell’Età del rame (Eneolitico), il cui cadavere doveva essere stato manipolato con operazioni di pulizia dei tessuti molli, forse nell’ambito di un rituale funerario. Il corpo doveva trovarsi sul bordo di una dolina: da lì il cranio, spinto dall’acqua e dal fango, deve essere rotolato all’interno della grotta, fino al punto e in cui è stato ritrovato”. Si tratta della “prima chiara evidenza di manipolazioni peri mortem di un cranio in epoca eneolitica in Italia documentata solo dallo studio osteologico, considerando che il contesto in cui è stato trovato il cranio è privo di qualunque altra evidenza antropologica e archeologica”, afferma Maria Giovanna Belcastro, professoressa di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Alma Mater, che ha coordinato lo studio: dunque “si tratta di una scoperta che offre importanti indizi per ricostruire le pratiche funerarie delle popolazioni eneolitiche che vivevano nel territorio emiliano-romagnolo”.

Il cranio, ricorda l’Università, fu trovato 26 metri sotto il livello del suolo durante l’esplorazione di un nuovo ramo della grotta Marcel Loubens, una cavità che si trova all’interno del Parco dei gessi bolognesi e calanchi dell’Abbadessa. Solo nel 2017 è stato possibile recuperare il reperto, grazie ad una squadra del Gruppo speleologico bolognese (Gbs-Usb).

“Il cranio è stato quindi sottoposto ad approfonditi studi antropologici, per ricostruirne il profilo biologico ed esaminarne le dinamiche tafonomiche- scrive l’Ateneo- testimonianza di processi peri mortem e post mortem che il cadavere ha subito, fino alla scheletrizzazione e al successivo rinvenimento dei resti. L’analisi al radiocarbonio ha permesso di datare il reperto in un periodo compreso tra il 3.630 e il 3.380 avanti Cristo, ovvero nella prima fase dell’età del rame in Italia settentrionale”. Il cranio apparteneva ad una giovane donna, tra i 24 e i 35 anni. “Non conosciamo la causa della sua morte- continua la nota- ma doveva aver subito prolungati stress metabolici durante l’infanzia. Le carie presenti in alcuni molari suggeriscono una dieta ricca di carboidrati: un tratto ricorrente a partire dal Neolitico, quando furono introdotte le prime tecniche agricole”.

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